La mozzarella è, probabilmente, il formaggio più famoso e conosciuto del mondo. Il suo nome, quasi certamente, deriva da una delle fasi di lavorazione: la mozzatura legata al porzionamento del prodotto.
Questo formaggio tipicamente meridionale, sarebbe nato in Campania. Un documento risalente al secolo XII testimonia che i monaci Benedettini di San Lorenzo in Capua usavano offrire, in occasione di alcune festività religiose, un pezzo di “mozza” o “provatura” di antica tradizione. Proprio quest’ultima affermazione lascia intendere che tale produzione, già allora, non fosse ritenuta recente. Il più vecchio documento sul quale appare invece il termine completo “mozzarella” risale al XVI secolo, redatto da un cuoco presso la corte papale.
L’arte della preparazione della mozzarella, che in Campania si è legata all’allevamento delle bufale, sarebbe stata esportata in Molise e in Puglia. Nella nostra regione la lavorazione delle paste filate fresche e stagionate ha origini antiche e nasce con il trasferimento nell’area della Murgia sud Orientale di alcune nobili famiglie partenopee che arrivarono con i propri animali al seguito, mucche e bufale – che oggi non ci sono più – prevalentemente, portando in dote anche tecniche di lavorazione e trasformazione del latte che, negli anni, hanno attecchito.
Partendo proprio da questo presupposto storico, qualche anno fa alcuni ricercatori e qualche produttore si adoperarono per dare il via all’iter per il riconoscimento di una Denominazione di Origine Protetta (DOP) legata alla mozzarella vaccina il Puglia. La cosa ha trovato, in un primo momento, la dura opposizione dei consorzi campani (il marchio DOP alla mozzarella di bufala campana risale al 1996 e nell’areale di produzione ricade anche una porzione della provincia di Foggia) ma il comitato scientifico che ha lavorato agli studi e alla stesura del disciplinare ha saputo rispondere sempre colpo su colpo. Ora, a livello nazionale e come marchio transitorio, è possibile utilizzare la denominazione Gioia del Colle. La domanda per la registrazione della DOP è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il 21 ottobre 2019 ma, prima dei novanta giorni previsti per legge per rendere il tutto definitivo, è stato presentato un ricorso da parte della Germania che porterà adesso ad un naturale allungamento dei tempi previsti per la chiusura di tutta la pratica.
Ma perché parliamo di Mozzarella di Gioia del Colle qui, in questo spazio dedicato alla valle d’Itria? Perché la zona geografica di produzione comprende territori ricadenti nella Murgia barese e tarantina (anche quelli dei comuni di Locorotondo e Martina Franca) dove le aziende zootecniche da latte (molte delle quali di origine federiciana) sono presenti in gran numero. In questo spicchio di Puglia gli allevamenti e le aziende di trasformazione producono mozzarella vaccina da tempi lontani.
L’area individuata dal disciplinare di produzione si distingue da altre parti della regione – dove comunque si lavorano prodotti d’eccellenza – sia per le peculiarità geografiche e pedoclimatiche, sia per l’antica e radicata tradizione casearia che è stata tramandata di generazione in generazione. La “Mozzarella vaccina di Gioia del Colle”, inoltre, è un formaggio che possiede un ulteriore e stretto legame con il territorio in cui nasce grazie all’utilizzo del siero innesto per la sua realizzazione. Questo rientra nelle colture lattiche caratterizzate da “microflore autoctone” ed è ottenuto lasciando sviluppare in condizioni controllate quei batteri già presenti naturalmente nel siero riveniente dalla lavorazione del giorno precedente. Quella che si sviluppa è pertanto la sommatoria della microflora originaria del latte e di quella degli ambienti di caseificazione. Di fatto il siero innesto costituisce il legame tra le caseificazioni che si susseguono giorno per giorno e insieme alla materia prima dona inimitabili caratteristiche al prodotto, particolarmente intense nel formaggio appena prodotto.
Per chiudere il discorso, in caseificio la lavorazione della mozzarella parte dall’inoculo del caglio nel latte. Successivamente la cagliata è rotta alle dimensioni di una nocciola e, quindi, lasciata maturare sotto siero fino al raggiungimento dell’acidità necessaria: è proprio questo il passaggio chiave per l’ottenimento delle paste filate. È l’acidità, infatti, che consente alla cagliata di farsi plastica e malleabile e lavorabile attraverso il successivo processo di filatura, effettuata manualmente o meccanicamente, con acqua molto calda (circa novanta gradi).
Qui occorre aprire una piccola parentesi: il processo di lavorazione che prevede l’utilizzo di siero innesto per l’acidificazione della cagliata è il più antico e tradizionale. Ma porta via del tempo: per raggiungere il livello di acidità necessario occorrono alcune ore durante le quali i batteri lattici svolgono il proprio lavoro facendo fermentare la cagliata. Questo, però, non è l’unico modo per produrre formaggi a pasta filata.
L’acidificazione che consente poi il processo di filatura può avvenire anche mediante l’utilizzo di acidi organici (acido citrico in particolare): questa, che è la forma più moderna di produzione, è una tecnica messa a punto negli Stati Uniti. Gli acidi aggiunti al latte portano immediatamente al raggiungimento del pH ideale per la filatura della cagliata, accorciando notevolmente i tempi di lavorazione.
Alla fine, che venga prodotta con siero innesto o con il processo di acidificazione diretta, la mozzarella si presenta sotto diverse forme: sferoidale, a nodo, a treccia.
Per dare concretezza a questo discorso, ho deciso di puntare su un formaggio che nasce nel territorio di Martina Franca, nella Riserva naturale “Bosco delle Pianelle”. Proprio qui è ubicata la masseria “Le Pianelle”: il caseificio aziendale lavora artigianalmente il proprio latte. La produzione delle paste filate avviene con l’utilizzo del siero innesto che dona ai prodotti freschi un lieve e piacevole sentore acidulo. La mozzarella assaggiata si presenta abbastanza resistente al morso ed elastica al punto giusto. Odori ed aromi richiamano il latte e la panna fresca.
(foto in evidenza di Carlo Carbotti: vacche di razza bruna al pascolo)
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